Se la cartella clinica è incompleta, è la struttura sanitaria a pagarne le conseguenze

Se la cartella clinica è incompleta, è la struttura sanitaria a pagarne le conseguenze
19 Dicembre 2016: Se la cartella clinica è incompleta, è la struttura sanitaria a pagarne le conseguenze 19 Dicembre 2016

La sentenza n. 22639 dell’8.11.2016 della Corte di Cassazione ha riaffermato il principio per cui la negligente compilazione della cartella clinica integra “la prova presuntiva nel nesso causale a sfavore del medico” e, dunque, della struttura sanitaria nella quale questi opera “qualora la condotta dello stesso sia astrattamente idonea a cagionare quanto lamentato”. La Suprema Corte ha, infatti, riformato una decisione della Corte d’appello di Napoli che aveva confermato una sentenza di primo grado sfavorevole ai due pazienti che si asserivano danneggiati “per mancato adempimento dell’onere della prova in ordine al nesso causale tra gli interventi” praticati loro e il danno che sostenevano di averne riportato. Per confermando che l’onere della prova del nesso causale, anche in materia di responsabilità contrattuale (in questo caso: medica), incombe al danneggiato, i Giudici di Pazza Cavour hanno affermato che non è possibile far “gravare la incompletezza della cartella clinica sul paziente, deducendone l’assenza della prova del nesso causale”. In tal senso la sentenza citata richiama molteplici precedenti (Cass. civ. nn. 12686/20111, 10060/2010,  1538/2010, 6218/2009, 12273/2004…), secondo i quali “la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro di principi in ordine distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioè l’effettiva possibilità per l’uno per l’altra parte di offrirla”. Si tratta di un principio consolidato, che tuttavia suscita più di qualche perplessità. Da un lato, infatti, i “principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova” dettati dall’art. 2697 c.c. pongono il suddetto onere probatorio a carico del paziente e dall’altro non prevedono affatto che questo possa reputarsi adempiuto per mero effetto di una condotta negligente della controparte processuale. Inoltre, il principio della “vicinanza alla prova” riguarda semmai proprio la distribuzione degli oneri probatori, e non già le condizioni sufficienti perché questi possano reputarsi soddisfatti. Quanto alla presunzione dì sussistenza del nesso causale predicata dalla giurisprudenza in questione, è quanto meno dubbio che dal fatto noto della incompletezza della cartella clinica possa inserirsi, con certezza o elevata probabilità, quello ignoto della sussistenza del nesso di causalità tra condotta del medico e danno del paziente: per un verso non vi è correlazione logica tra i due fatti e peraltro si dovrebbe ritenere che la predetta incompletezza sia diretta proprio ad occultare la sussistenza del predetto nesso di causalità (e non sia invece frutto di mera trascuratezza). Per non dire poi che l’applicazione di tale principio si risolve nel sanzionare (con un’inversione dell’onere probatorio normalmente previsto) la condotta di una parte processuale consistita nel non aver precostituito una prova… a proprio sfavore (e cioè una prova di cui era onerata la propria controparte processuale), escogitazione questa la cui legittimità appare a dir poco opinabile.

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